Io provengo dalla Galassia AB1736988

Io provengo dalla Galassia AB1736988. Provengo da un viaggio interplanetario di anni 117. Sarete sorpresi di vedere che sono così bello. Questo accade perchè sul vostro pianeta solgono dipingere e descrivere gli extraterrestri come esseri verdognoli alti un metro e dieci centimetri, con grossi tentacoli o dita a illuminazione intermittente, un corpo viscido ed una irrefrenabile voglia di chiamare a casa. Nel posto da cui provengo la nostalgia non esiste. Il posto da cui provengo si chiama KL7. Nello stesso istante in cui vi sto scrivendo, il posto da cui provengo sta per implodere perchè tra gli abitanti della galassia AB1736988 ci sono stati dei problemi. Problemi non previsti.
In questo momento gli abitanti 18777353d9342h23 tengono in ostaggio quelli il cui codice finisce con il numero 4, perchè questi ultimi sono ritenuti geneticamente inferiori. Alcuni scienziati sono pronti a provarlo. Sono venuto qui per salvarmi la vita. Sono venuto qui perchè ho scelto un pianeta a caso, tra quelli che presentano forme di vita. Voi non lo sapete ancora, ma non sono pochi. Io voglio vedere cosa succede in questo posto. Io voglio imparare la comunicazione. Io voglio che voi mi diate alcune informazioni: quanti pasti fate al giorno? Di quanti rapporti sessuali avete bisogno per generare le vostre uova? Chi è Mastella? Io ringrazio voi, miei compagni di viaggio. Ma state in guardia. L'età del ghiaccio sta arrivando. Con simpatia, VIAGGIATORE 18777353D9342H24

giovedì 2 luglio 2009

lunedì 22 giugno 2009

Italia fuori (meritatissimamente) dalla Confederation Cup - Articolo per Universy.it


Si esce dalla Confederations Cup, e si esce che peggio non si può. Le tre pappine rifilateci dal Brasile (doppietta di Luis Fabiano e autogol di Dossena) fanno più male della sconfitta contro l’Egitto, perché per passare il turno sarebbe bastato insaccare un solo pallone alle spalle di Julio Cesar, sarebbe bastato non prenderne tre: solo due. Gli Stati Uniti, infatti, hanno nel frattempo conquistato una qualificazione disperata, battendo per tre volte quel portiere egiziano che qualche giorno fa c’era sembrato Lev Jascin. Tre gol in virtù dei quali gli americani ci hanno superato in differenza reti e andranno a giocarsi contro la Spagna una semifinale meno demeritata di quella che avremmo giocato noi. Se si pensa che, alla vigilia, in Italia si pensava al miglior modo per dare due gol di scarto al Brasile, tutta la faccenda si arrotola in un’amara vena ironica.

L’inferiorità degli azzurri contro i verdeoro è stata totale: tattica, tecnica, mentale e atletica. Tre quarti delle colpe di questa eliminazione (di cui, in fondo, non è che freghi tanto a nessuno) è del ct Marcello Lippi. Tatticamente: Lippi ha regalato il centrocampo ai palleggiatori brasiliani; il nostro possesso palla è stato sterile, andandosi regolarmente a schiantare contro il "proverbiale muro difensivo brasiliano" (leggasi: abbiamo fatto diventare il buon Lucio un piccolo Beckenbauer); avevamo la possibilità di far male sugli esterni e non abbiamo giocato sulle fasce prima della metà del secondo tempo. Tecnicamente: che Toni fosse un giocatore finito, tutta Italia lo aveva capito da almeno un anno; stesso discorso (o quasi) per Zambrotta; otto undicesimi dei giocatori umiliati ieri dal Brasile sono reduci dal trionfo di Berlino; Santon è stato sottratto all’under 21 perché gli si regalasse una breve vacanza in Sudafrica; Rossi e Grosso, gli uomini più in forma nelle due partite precedenti, non erano fra i titolari. Mentalmente: c’è poco da dire. La mia nazionale ha sempre fatto magre figure in giro per il mondo. Ma nelle partite importanti c’è sempre stata, ha sempre lottato, si è sempre fatta rispettare. Ieri no. E l’allenatore è sempre il primo responsabile dello stato mentale dei suoi giocatori. Atleticamente: è l’unico alibi che il tecnico può richiedere a sua discolpa (e lo ha puntualmente fatto): gli azzurri sono stati in ritiro per due sole settimane, al termine del più massacrante campionato al mondo. Sta comunque di fatto che gli altri, anche quelli che hanno giocato in Serie A (vedi Kaka fluttuare come libellula alle spalle di Pirlo e De Rossi), correvano più di noi.

Avevamo poche certezze. Qualcuna l’abbiamo persa. Quoque Chiellini e De Rossi: ci è rimasta solo la bandiera Buffon. Ed è difficile non vedere che stiamo arrivando a questi Mondiali senza un progetto e senza l’ombra di un’idea per ricostruire una squadra che andava rivoluzionata già nel settembre del 2006 (Donadoni ci aveva timidamente provato, ma alla fine non gli è stato permesso). A fine partita (partita?), Lippi ha sostenuto: "Dall’esterno devono stare calmi a spingere con i giovani, perché ci vuole anche l’esperienza in questo tipo di partite. Ci vuole personalità, esperienza, una certa abitudine a certe partite". Chissà perché, allora, abbiam perso contro undici giovanotti egiziani che i mondiali se li sono sempre visti in tivvù. Ai poster l’ardua sentenza.

sabato 4 aprile 2009

Tra il Caspio e i gasdotti



Il Caucaso è una striscia di terra che probabilmente solo a Tbilisi sarebbe difficile definire remota. La maggior parte degli abitanti del globo terraqueo non ha idea di dove si trovi, chi lo sa non perde molto tempo prima di tagliare corto: "E' un brutto posto". In effetti lo è.

Duemila anni fa Gengis Khan arrivò fin qua insieme al suo terrore mongolo: se all'epoca v'era qualche barlume di civiltà in giro per il mondo, di certo le sue truppe ne erano state tagliate fuori. Le popolazioni del Caucaso furono costrette a riparare nei più nascosti angoli di quelle montagne arcigne e selvagge: si divisero e continuarono a vivere separate per un bel pezzo. Più o meno per sempre, in realtà. Nel Caucaso puoi trovare 4 ceppi linguistici, etnici, religiosi e sociali diversi facendo una passeggiata di una cinquantina di chilometri.

Di qui passarono romani, persiani, ottomani e sovietici: nessuno riuscì nell'intento di domare gli spiriti identitari di quelle remote popolazioni. E sostanzialmente nessuno se ne curò più di tanto, soprattutto dopo la fine del "Grande gioco" tra gli imperi russo e britannico, a inizio ventesimo secolo. Fino ad ora.

Oggi il Caucaso è uno dei punti nevralgici dello scacchiere geopolitico mondiale. La partita più importante si gioca qui, esattamente nella striscia di territorio che ospiterà il Btc. Btc sta per Baku-Tbilisi-Ceyhan: è l'oleodotto che per la prima volta aggirerà il gigante russo per portare oro nero in Europa.

La Nato è venuta a giocare a palla nel cortile di casa. Un cortile che però il presunto padrone conosce troppo bene: i russi strisciano tra ingusceti, ossezi, ceceni e abkhazi mentre gli occidentali chiedono ancora informazioni stradali per Tbilisi. La partita del Cremlino è già vinta in partenza.

mercoledì 11 marzo 2009


Quattro anni, centosessanta domeniche di passione, quattordicimilaquattrocento minuti dopo, Edy Reja abbandona questo Napoli di cui era stranamente divenuto l’anima, insieme a un sogno che continuava a coltivare a sessantatre anni suonati. Stranamente, dicevo. Perché per chi vive tra via Caracciolo e l’immenso interland del capoluogo campano, Gorizia – dove Edy nasce il 10 ottobre del 1945 – è un po’ come dire Vladivostok. Così come – immagino – la parola Napoli doveva suonare a Edy tipo Buenos Aires o Brasilia. Eppure, ci avevamo fatto l’abitudine – noi e lui. Noi ci eravamo abituati al suo sguardo accigliato sotto i capelli bianchi e le rughe abbronzate, alle interviste in giacca blu, cravatta blu, camicia a righe bianche e – ovviamente – blu. Ci eravamo abituati a quell’accento che da straniero era divenuto familiare, così come ci eravamo abituati ai lanci per Sosa, al 3-5-2, a Savini terzino, Montervino capitano e alla staffetta Denis - Zalayeta. Reja non è mai entrato nel cuore dei tifosi napoletani, non avrebbe potuto. Però era pian piano diventato il Napoli.

Questo non tanto per l’inverosimile numero di stagioni sulla panchina azzurra (ha eguagliato il record di Ottavio Bianchi). Quanto perché Edy Reja viveva lo stesso sogno a passi rigorosamente più lunghi della gamba che viveva tutta la gente di Napoli. L’azzurro, per lui, era l’apice di una carriera ch’era iniziata nel 1979 alla guida del Molinella (Serie D – provincia di Bologna) e che con tutta probabilità si sarebbe silenziosamente dissolta nel limbo che conserva le memorie di quegli allenatori che vanno bene in B e male in A. Lui, del vecchio, ha solo l’anagrafe. E allora a 59 anni torna in C per sposare un progetto su cui gravava il peso di vent’anni di fallimenti precedenti. Ai tifosi pare l’ennesimo coach che la perenne corsa verso il basso del Napoli avrebbe masticato e digerito male. Invece quello comincia a vincere le partite. Un metodo rivoluzionario, a cui nessuno dei precedenti allenatori del Napoli (a parte Gigi Simoni, ma questa è un’altra storia) aveva mai pensato. Quattro anni: un play off in C1, una promozione in B, subito una in A, subito una qualificazione in Intertoto.

A Napoli tornano le notti europee. I dizionari dovrebbero riportare questo esempio sotto la voce “utopia”. Edy dà uno sguardo – sempre accigliato – alla curva del San Paolo, piena come lo è sempre stata. Ma qualcosa ricorda tempi andati, che non pareva possibile potessero tornare. Lui è emozionato quanto tutti gli altri, forse un po’ di più. Oggi, avrebbe volentieri continuato a coltivare il sogno partenopeo e a stare appresso ai capricci degli attaccanti argentini. Ma con la sua razionalità friulana, avrà capito da tempo che il suo tempo è finito. Ora tocca a uno che ha appena smesso le vesti di ct della nazionale, non so se ci siamo spiegati. Reja resterà un buon allenatore, nulla di più, nulla di meno. Uno dei pochi, però, che un sogno l’ha vissuto e l’ha pure realizzato. Forse tornerà a Vladivostok, Reja, dalla sua gente. Ma la vecchiaia, a differenza di quegli altri, non saprà mai cos’è.

mercoledì 18 febbraio 2009

Gianmarco Volpe diventa berlusconiano



Oggi pomeriggio, alle 18:00, Gianmarco Volpe diventa berlusconiano.
Notizie fresche dal pianeta dei vivi suonano inequivocabili: i comunisti non rimorchiano. Io e Gigi lo abbiamo deciso due giorni fa: quando pensi una cosa del genere niente rimarrà più come prima. E’ un po’ come Zarathustra che uccide Dio, cose così. Sono le basi, le fondamenta, le senti muoversi sotto i piedi. Devi cambiare casa.
Cambiare casa, appunto. Comincio dalle pareti. Via il poster del Grande Lebowsky, via quelli dei Radiohead e dei Pink Floyd. Via il cartello preso a Berlino: YOU ARE LEAVING THE AMERICAN SECTOR; via quegli altri due con scene di vita di guerra fredda. La guerra fredda è robba vecchia, giornali di secoli fa, gente saponificabile: la destra è panta rei, scorre come un’autostrada tedesca, si ricicla come un democristiano, o come i rifiuti nei paesi in cui vengono riciclati. La destra è movimento, movimento bieco, immemore, circolare, ma movimento. Tiro via pure il quadretto di Lisbona, un posto che ha ritmi di vita di sinistra, e pure il manifesto del concerto – a Las Vegas – dei Nirvana. Las Vegas, sì, è una delle cose di destra più riuscite in tutto l’universo. Da sinistroide sapevo pure com’era nata, Las Vegas: da destroide, non me lo ricordo più. Dicevo. I Nirvana sono ribelli, zozzi e capelloni. E allora i Nirvana a Las Vegas suonano un po’ come un atroce coito consensuale tra uno zingaro e una principessa belga. Feticismo politico. Metto tutto dentro un grosso cartone con sopra scritto: FRAGILE. Non ho ancora deciso se bruciarlo. Intanto però le mie pareti sono lisce e bianche come il culo di una finlandese. Ho fatto più in un quarto d’ora da berlusconiano che in ventitrè anni da progressista.
Sono un conservatore, adesso. Le cose si fanno chiare, le giornate sono scandite in unità di tempo, le mie vacanze sono già organizzate. I miei momenti ora si chiamano così: sveglia col cellulare; smart, parcheggio a pagamento, briefing, meeting, lunching, mi occupo di marketing, merchandising, franchising, oppure faccio l’avvocato, il notaro, il commercialista, leggo due fesserie sul sito di Leggo, sto su facebook, su badoo, su msn, su hi5, mi faccio parcheggiare la macchina, me la faccio riprendere, la porto all’afterhour, per trovare parcheggio me la dovrei magnà la macchina, dico cose di destra, sono scettico sul presidente negro, ascolto le ultime dei romeni, dico che vanno cacciati a calci in culo, che devono stare alle nostre regole, cena con una gran figa, e se non c’è me ne vado a macdonald, e se continua a non esserci mi infilo una canottiera – gialla, bianca, viola – vado in discoteca, c’è musica buona, un dj da sballo, c’è movimento, c’è figa, se ne trovo me la faccio al cesso, se non ne trovo – poi – me ne vado a troie.
Devo metter via i film. Faccio prima a metterli tutti dentro al cartone e a ripescarne un paio che possono andare. Penso di riprendermi Il braccio violento della legge e Il giorno dello sciacallo, ma sono vecchi, vale lo stesso discorso fatto per i poster della guerra fredda. La mano mi trema mentre butto via tutto Lynch. Ma adesso sono un conservatore, non mi piace quello che non posso capire. Via Kusturica, perché è zingaro, via i Coen che sono ebrei, via Kubrick, Bellocchio e tutti gli altri registi europei che son tutti comunisti. Mi resta solo Scarface, qualcosa di John Carpenter e un paio di gangster movie. Le tre mensole sono desolanti. Ma si respira un po’ di più qua dentro. Tanto, uno di questi giorni vado alla Mondadori a comprare un paio di film di Neri Parenti. E poi – su quelle mensole – ci sta bene qualche pianta grassa.
Le vacanze quest’estate le faccio al mare: o in Sardegna, o all’estero. Faccio le parole crociate sotto all’ombrellone, poi piglio il sole per sei ore, poi c’è sempre l’afterhours. Afterhour, pardon. La notte c’è lo spettacolo del villaggio turistico, un negro mi poterà un Cuba Libre, la notte è tempestata di stelle, di profumi, di desideri sulla punta della pelle. C’ho la camicetta di lino tutta sbottonata, i pantaloni rosa, il mocassino blu. Questa notte, magari, mi innamoro pure io. Mi metto sulla sdraio, mi passo una mano sopra al petto, con l’altra controllo se c’ho chiamate perse sul cel. A Roma, notti così, non ce ne stanno. Qui in Tunisia sono poveri quanto in Africa, però sorridono, son felici. Perché le loro notti sono silenti, dense, calde. Quando guardi il cielo, da questo angolo del mondo, non c’è nulla di cui aver paura, nulla di cui dubitare. Consiglierò a Gigi di venirci l’estate prossima.
I libri li brucio tutti. Non c’è nulla tra questa stuff di cui un conservatore possa aver bisogno. Un paio di copie di Men’s Health, qualche romanzo di John Grisham, di Dan Brown, cose così. Bastano e avanzano. Devo anche fare un po’ di pulizie tra le cianfrusaglie, le cazzate che mi porto dietro da ogni viaggio. Troppa robba in questa casa, una testimonianza lampante del palese fallimento d’un comunista in tempi di crisi dei subprime. Penso di poter essere una persona eccentrica anche da conservatore, ma la mia eccentricità è un tipo di eccentricità difficile da capire. Tipo. Ho una testa di duce accanto al letto. Dubito di poterla lasciare là, i miei futuri amici di Aenne potrebbero non capire. Il tagliacarte della Ddr, gli occhiali da sole a forma di boccali di birra, il colbacco bolscevico e il panama sudamericano: non posso portare a letto una figa con questa roba in giro per casa. L’unica cosa che lascerò sulla libreria è la matrioska formata dai giocatori del Napoli. Per il resto piazza pulita.
Divento berlusconiano per lo stesso motivo per cui sono diventato così come sono adesso. Per rimorchiare. Mi piacerebbe che le ragazze lo sapessero, che vedendo la mia libreria vuota capissero. Voglio vivere in mezzo alla gente, voglio essere dentro la folla, prosperare nella pancia del popolo. Voglio sentire calore, la vostra musica, il vostro sapere dove andare, in qualsiasi momento. Voglio avere una direzione, voglio avere un’idea precisa, voglio poter pensare d’avere qualcosa di nuovo da dire, voglio capire i tassi d’interesse e il mondo delle assicurazioni, voglio imparare a distinguere l’omini dai froci dai trans dai travelloni, voglio crepare in salotto, voglio tracciare linee divisorie dritte dritte, voglio crepare a centodue anni perché la vita è sacra, voglio crepare senza un peccato da scontare, candido e luminoso come il sole d’una mattina d’aprile, voglio galleggiare sopra la vita, con l’iPod dentro le orecchie e una canzone stupida dentro l’iPod. Sono Gianmarco Volpe. E mi rendo conto che volere, per me, è il primo risultato da conservatore. Qui a destra, si va avanti per risultati. Capire Battiato e i Cccp, lo lasciamo a voi.
La montagna di ciddì e vinili che possedevo l’ho caricata tutta in macchina di Gigi. Gigi mi accompagnerà, la lasceremo sul ciglio di una provinciale. Devo imparare, ora, a parlare per connessioni d’immagini, come l’americani. Mai più coordinate e subordinate: il discorso è una serie di pensieri carini da copiare e incollare nella testa del tuo interlocutore. Troppe vocali inutili, tra le mie parole. Troppi spazi sprecati, dentro le mie frasi. La vera cnqst del 20° sec. è ottimizz il tmpo. Unità di tmp, poke e bn definite. La vita è breve, nn rkordo manco + ki me lo disse. Xdere tempo è il peggio crimine cntr la vita, dp l’eutanasia e l’abrt.
Mo’ c’è un mukkio di tempo a disposizione per migliorarsi. Sn un novello, xò farò strd attraverso i risultati. Questa è la via capitalista. Questa è la sola via.
Nn c’è nulla di cui aver paura, nulla di cui dbtr.

venerdì 7 novembre 2008

Indovina chi viene a cena?



In genere non mi sento parte di nulla. La frammentazione è congenita nello spirito, nella mia generazione, nel mio paese. La millenaria difficoltà che gli uomini d'ingegno trovano di fronte alla possibilità di dire incondizionatamente "sì" trova rarissimi intervalli nella storia. Credo che la rivolta di Masaniello sia stato uno di questi. Dal canto mio, non partecipo a manifestazioni, il mio voto non ha certezze, i miei discorsi sono fluidi e - in genere - spero trovino poco seguito.

Oggi mi sento parte di qualcosa. Di una stanca generazione che trova più agevole pensare di poter cambiare il mondo piuttosto che abbandonarsi alla bieca rassegnazione che ha caratterizzato il postsessantotto italiano. Oggi sento di avere un mare di coraggio in più di prima.